XENOGLOSSIA

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La Xenoglossia è, nell’ambito della fenomenologia paranormale, uno straordinario fenomeno che ancora oggi, pur essendo stato accettato da tutti gli studiosi, non si sa in che ottica spiegare.

   Si tratta, in definitiva, della capacità di alcuni medium e, spesso, di alcune personalità medianiche non solo di parlare lingue sconosciute a loro e a tutti i presenti, ma di dialogare tranquillamente in queste lingue dimostrando di averne una padronanza assoluta. Molte volte, il fenomeno, si manifesta abbinato a episodi di trance ad incorporazione e, cosa più sbalorditiva di tutte, di voce diretta, altro interessantissimo fenomeno per cui la lingua straniera, a volte antica di oltre duemila anni, non viene da una laringe umana ma dai posti più svariati dell’ambiente della seduta: angoli, pareti, soffitto o pavimento.

   Vediamo cosa dice della  xenoglossia l’Enciclopedia “ L’Altro Regno “ a cura di U. Dèttore:

   Fenomeno paranormale che si manifesta, in genere, in sedute spiritiche e per il quale il medium, sempre in trance, salvo rarissime eccezioni, parla o scrive in lingue straniere a lui sconosciute e, talora, sconosciute anche a tutti gli astanti. La xenoglossia avviene per lo più nei casi di possessione, quando cioè, attraverso il corpo del medium, sembra manifestarsi una personalità defunta; ma può anche esprimersi per voce diretta; in alcuni casi, fantasmi materializzati hanno parlato o scritto in lingue straniere come nel tipico e famoso caso di Nepenthes.

   Quanto alle lingue che appaiono nella xenoglossia, sembra non esservi limite; si può trattare di lingue vive o morte o di dialetti. In alcuni casi sono stati riconosciuti dialetti di lingue antiche praticamente scomparsi, che gli specialisti hanno potuto interpretare solo in parte e a fatica.

   Il fenomeno, a lungo negato dalla scienza ufficiale, è ormai accertato. Nella storia della Ricerca Psichica, i casi di medium che parlano lingue straniere sono molti. Per ovvie ragioni parleremo dei più famosi e qualcuno di questi lo riporteremo per esteso più avanti.

   Nel 1925 il famoso medium americano a voce diretta George Valiantine produsse una voce che parlò a lungo, nella sua lingua, col poeta giapponese Gonnoskè Komai: questi riconobbe nella voce il proprio fratello defunto, Otani. Nel 1928 la medium Rosemary parlò nell’egiziano di 3300 anni fa con Howard Hulme, docente di egittologia all’università di Oxford, producendo la personalità di “ Nona “. La xenoglossia è certo uno dei fenomeni paranormali più sconcertanti e fra quelli che meglio sembrano testimoniare a favore dell’ipotesi spiritista. Appunto per questo gli autori contrari allo spiritismo si sono sforzati di contrapporvi altre ipotesi. In un primo tempo si cercò di spiegare il fenomeno con la criptomnesia o memoria nascosta: si disse cioè che si trattava di semplici ricordi di parole o discorsi uditi dal medium in qualche occorrenza, rimasti poi sepolti nel suo inconscio ed emersi durante la trance. L’ipotesi non mancava di fondamento: Coleridge, per esempio, riferisce il caso di una giovane cameriera che durante crisi febbrili, parlava in latino, greco ed ebraico. Fu accertato che la ragazza era stata precedentemente a servizio in casa di un dotto sacerdote il quale era solito leggere ad alta voce opere antiche: in tali opere furono trovati i brani recitati dalla ragazza. Si trattava dunque, quasi certamente, di criptomnesia che creava un caso di finta xenoglossia; ma questo fenomeno fa parte a sé e non può essere generalizzato estendendolo ai casi in cui si ha un vero e proprio colloquio in nessun modo spiegabile co l’affiorare di brani ricordati. Una seconda ipotesi fu avanzata da Richet dopo avere studiato una signora che, in trance, scriveva frasi in greco, lingua a lei ignota. Lo scienziato si accorse che si trattava di frasi contenute in un dizionario greco posseduto dalla medium e ne concluse per un fenomeno di chiaroveggenza in libri chiusi. Con ogni probabilità aveva colto perfettamente nel segno, ma, anche in questo caso, si deve parlare solo di finta xenoglossia e non è lecita una generalizzazione.

   Una terza ipotesi, ancora sostenuta da molti, è la telepatia: il medium leggerebbe nella mente del suo interlocutore sia il linguaggio sia il contenuto delle sue risposte. Tale ipotesi potrebbe essere valida e sembra trovare conferma nei casi di xenoglossia in stato di veglia. Una tale comunicazione, tuttavia, non spiega la totalità dei fenomeni. Per esempio, Valiantine produsse più volte voci dirette che parlavano tra loro in una lingua sconosciuta a tutti i presenti: Lord Charles Hope fece registrare su disco una di queste conversazioni che, più tardi, Whymant riconobbe essere in cinese arcaico. In questo caso non è possibile pensare a un fenomeno telepatico, per lo meno fra viventi, perché alla seduta non era presente nessuno che conoscesse la lingua e che potesse fornire telepaticamente il materiale del dialogo. Eguali riflessioni suggerisce un caso riferito da Haraldur Nielsson, professore di teologia nell’università di Islanda, nel suo libro “ Le Mie Esperienze Personali Di Spiritismo Sperimentale “, pubblicato verso il 1910. Nelle sedute tenute a Reykjavik nel 1904, col medium islandese Indridi Indidrason, si presentò più volte una personalità che diceva di essere stata un medico norvegese e che parlava in norvegese letterario e, talora, in norvegese popolare, lingue ignote al medium, che parlava solo l’islandese e sapeva appena leggere e scrivere. Nielsson conosceva solo il norvegese letterario, così che prendeva nota ogni volta dei termini popolari a lui sconosciuti e andava a cercarli sul dizionario di Ivar Aasen, dove li trovava regolarmente.

   Un caso particolare è quello in cui il medium, in trance, capisce domande rivoltegli in lingua straniera ma risponde nella propria lingua. Questo fenomeno è spiegato, anche dagli spiritisti, con la telepatia: il medium percepirebbe telepaticamente il pensiero di colui che parla; indipendentemente dalle parole. C. Lafontaine riferisce di una sensitiva che, in stato di ipnosi, capiva le domande a lei fatte in varie lingue, rispondendo regolarmente in francese. Una volta che lo sperimentatore le rivolse una domanda in ebraico, ella non seppe rispondere e spiegò che chi aveva parlato ignorava lui stesso quel che diceva. In realtà Lafontaine aveva pronunciato una frase ebraica suggeritagli da un amico, senza però conoscerne il significato.

   Una quarta ipotesi, per il vero molto poco seguita, è quella della memoria atavica, ereditata dal medium da qualche suo ascendente il quale avrebbe conosciuto la lingua da lui parlata in trance; ma, a parte il fatto che bisognerebbe risalire molto in là nel tempo per trovare antenati del soggetto che parlano in cinese arcaico, in greco antico o in egiziano, e che, per di più, bisognerebbe metterne insieme una decina per spiegare i vari linguaggi, l’esistenza di una memoria atavica non ha il minimo fondamento scientifico. Oltre all’ipotesi telepatica, le più diffuse attualmente, al di fuori dell’ipotesi spiritica, sono quelle che fanno capo alla presenza di campi psichici o al serbatoio cosmico ipotizzato da William James: a qualche psichismo universale, insomma, al di fuori dello spazio e del tempo, in cui sarebbero raccolti i ricordi e le cognizioni dell’umanità intera e a cui attingerebbe la mente del medium.

   Vediamo, ora, cosa dice, a proposito della xenoglossia, Ernesto Bozzano, nel suo volume “ Per La Difesa Dello Spiritismo “, pag. 93 e seg. in polemica con Renè Sudre a proposito della sua “ Introduction à la Métapsychique Humaine “:

   In merito ai casi di xenoglossia, il Sudre vi accenna in guisa assolutamente insufficiente e superficiale. Egli scrive:

   “ I casi in cui il soggetto medianico si mette a parlare una lingua straniera ch’egli dice di non conoscere debbono esaminarsi con la presunzione di scoprire in essi dei fenomeni di criptomnesia. Flournoy ne cita alcuni esempi, tra i quali è notevole il caso di una vecchia signora che, nella crisi di un delirio, si mise a parlare l’indostano. Ora essa non aveva più sentito parlare tale lingua dall’età di quattro anni, quando aveva abbandonato l’India. Elena Smith aveva assimilato ciò che sapeva di “ Sanscrito “ sfogliando una grammatica o altri documenti scritti in tale lingua. Il soggetto del Richet scriveva delle frasi in greco moderno le quali erano dei paradigmi del dizionario di Bysantius. Gli errori in cui cadde, erano d’ordine visuale e non già grammaticale, come se i caratteri tipografici fossero stati visti da lontano e superficialmente trascritti da qualcuno che non sapesse il greco. Infine, nel caso rarissimo in cui il soggetto risponda a domande rivoltegli in una lingua ch’egli assolutamente ignora, bisogna ammettere ch’egli si valga dei ricordi della personalità che incarna “.

   Così il Sudre; e in base a quanto osserva, emerge ch’egli non si è curato di approfondire il tema intorno al quale discute, visto che si limita a contemplare le due modalità di xenoglossia le quali non presentano valore teorico in senso spiritualista: quelle cioè, spiegabili con la criptomnesia, e quelle in cui il medium risponde a domande rivoltegli in lingue ch’egli ignora. Il Sudre considera questi ultimi casi come assai rari, laddove si riscontrano ogni qual volta un ipnotizzatore si trovi in condizioni di stretto rapporto col proprio soggetto; e il fenomeno si spiega col fatto che il soggetto chiaroveggente non comprende le parole che gli si rivolgono, ma legge nella mente del suo ipnotizzatore il pensiero da lui espresso in parole; giacchè il pensiero, nella sua modalità psico-fisica di “ stato vibratorio “ della sostanza cerebrale deve naturalmente risultare identico in tutte le individualità pensanti, all’infuori di qualunque rapporto con la lingua in cui l’individualità pensante lo traduce esteriormente.

   La difficoltà insuperabile per la spiegazione naturalistica dei fenomeni di Xenoglossia, comincia quando il medium non solo comprende le domande rivoltegli in una lingua che ignora, ma risponde e conversa spigliatamente nella lingua medesima. Su questo punto il Sudre non ha osato pronunciarsi; e mi esprimo in questi termini giacchè non può supporsi ch’egli non conosca i casi di tal natura, i quali si realizzano frequentemente, e in questi ultimi tempi si moltiplicarono addirittura, assumendo forme svariatissime, tutte teoricamente importantissime. Nel fascicolo di febbraio 1925 della rivista “ Luce e Ombra “, lo scrivente ha citato alcuni esempi recentissimi del genere, ricavati dal libro di H. Dennis Bradley “ Towards the Stars “, e in cui gli spiriti comunicanti conversarono spigliatamente coi consultanti nei loro dialetti nativi, l’uno dei quali era il dialetto Basco, e l’altro il Gallese. Nella seconda opera del medesimo autore “ The Wisdom of the Gods “, si contengono altri esempi interessanti del genere, in cui gli spiriti comunicanti – sempre per ausilio della “ voce diretta “ – conversarono in francese, tedesco, italiano, danese, russo, cinese e giapponese. In due occasioni i consultanti, col proposito di mettere alla prova lo spirito comunicante, il quale aveva iniziato la conversazione nella lingua del medium, cioè l’inglese, lo invitarono a proseguire nel linguaggio natio; ciò che venne fatto immediatamente; e in altra circostanza, una signora russa, maritata in Danimarca, rivolse la parola in Danese a uno spirito comunicante; ma questi, rivelatosi per suo fratello defunto, osservò:” Sono Oscar, parliamo in russo “. E la conversazione fu continuata in russo.

   Per brevità, mi limiterò a riferire un solo episodio del genere, in cui la conversazione si svolse in lingua giapponese.

   Nella sera del 18 marzo 1925, fu invitato ad una seduta il poeta giapponese Gonnoskè Komai; ed il Bradley riferisce in proposito quanto segue:

   “ L’episodio più drammatico della seduta si svolse quando una “ voce “ si rivolse in giapponese al signor Gonnoskè Komai. Per due volte la “ tromba acustica “ ricadde a terra prima che lo spirito comunicante pervenisse ad acquistare forza sufficiente per materializzare la propria voce. Quindi la tromba luminosa si rialzò da terra per la terza volta, si trasportò di fronte al signor Komai, e lo toccò due o tre volte; dopo di che, scaturirono dalla tromba queste parole:” Gonnoskè! Gonnoskè! “ Tale richiamo al proprio nome, impressionò vivamente il signor Komai, e ciò per una ragione di cui parleremo tra poco. La voce andò gradatamente acquistando vigore, e infine diede il proprio nome:” Otani “. L’identità del comunicante essendo così stabilita, si svolse un breve dialogo in lingua giapponese, in cui il defunto parlò soprattutto dei suoi figli.

   In seguito, il signor Komai ci ragguagliò in merito a una circostanza molto importante, la quale si riferisce al fatto che lo spirito comunicante lo aveva salutato chiamandolo per nome:” Gonnoskè! Gonnoskè! “. Ora, a norma dei costumi giapponesi, solo il fratello maggiore, o il padre o la madre, hanno il diritto di salutare pronunciando il nome personale di un famigliare; vale a dire, pronunciando il nome da noi chiamato “ di battesimo “. Orbene: è altamente suggestivo il riscontrare che lo spirito manifestatosi a Gonnoskè aveva il diritto di comportarsi in tal guisa, in quanto era il suo fratello maggiore, morto da poco. Ritiratosi lo spirito comunicante, si manifestò “ Bert Everett “, lo spirito guida, il quale rivolgendosi al signor Komai, disse:” Insieme a tuo fratello, è presente anche tua madre “. A proposito di siffatti ragguagli, giova rilevare che il signor Komai è un giovanotto; e in conseguenza, che nessuno avrebbe potuto supporre che gli fossero già morti la madre e il fratello maggiore. Inutile aggiungere che i presenti ignoravano tutto al riguardo del signor Komai, come ignoravano la lingua giapponese.

   Ritengo che questo episodio, in cui si è conversato in lingua giapponese, e in cui vennero fornite prove notevolissime d’identificazione personale, debba considerarsi una delle più belle e incontestabili prove odiernamente ottenute in dimostrazione della sopravvivenza “.

   Così il Bradley. E’ ovvio che nel caso esposto, come in tutti gli altri conseguiti col medium Valiantine, che non conosce altra lingua che la propria, mentre le “ voci dirette “ conversarono in sette lingue diverse, e in due dialetti difficilissimi, risulta completamente esclusa l’ipotesi della “ criptomnesia “. Ora, basta riflettere un istante sul tema, per concludere che dal punto di vista naturalistico, non rimane altra ipotesi cui ricorrere. Si consideri, infatti, che se per comprendere una lingua non è necessario che il medium la conosca, poiché gli basta percepire il pensiero del consultante, non è più così quando si tratta di parlare una lingua; nel qual caso occorre tassativamente che il medium conosca la lingua, giacchè la “ chiaroveggenza “ è impotente a fargliela conoscere, e tale impotenza deriva dal fatto che la struttura organica di una lingua è pura astrazione, e in conseguenza non si può né vedere, né percepire nel cervello altrui. Il sostenere il contrario, equivarrebbe ad ammettere che il medium in virtù della propria lucidità, pervenga istantaneamente ad apprendere il valore di tutti i vocaboli di una lingua, nonché di tutte le regole grammaticali con cui raggrupparli, disporli, coordinarli in frasi razionali, variarli secondo il loro genere, numero, declinazione e coniugazione; come pure, ch’egli pervenga ad apprendere fulmineamente la fonetica particolare ad ogni parola o dialetto, nonché l’accentuazione caratteristica ad ogni lingua o dialetto, e le locuzioni e gli idiotismi innumerevoli che costituiscono il fermento vivente di ogni linguaggio. E’ ciò possibile? Non posso immaginare che si trovino oppositori i quali all’unico scopo di evitare un’altra spiegazione piana, semplice, naturale, emergente spontanea dai fatti, osino sostenere una tesi pazzesca di tal natura.

   In ogni modo, qualora la situazione teorica disperata in cui si trova il Sudre lo spingesse a propugnare una tesi tanto sconclusionata, lo prevengo che in tale circostanza l’onus probandi non graviterebbe sulle spalle degli spiritisti, bensì di colui il quale osasse sostenere che se il medium conversa in una lingua ignorata, ciò si deve al fatto ch’egli ha carpito le proprie cognizioni linguistiche nella subcoscienza del consultante; vale a dire, ch’egli ha compiuto il miracolo di carpire ciò che nella subcoscienza del consultante non poteva esistere, in quanto la struttura organica di una lingua, è pura astrazione, e non esiste da nessuna parte. Ora, pertanto toccherebbe al Sudre di provare sulla base dei fatti le proprie affermazioni; e ciò in contradditorio con gli spiritisti i quali hanno da far valere tutto un complesso organico di prove collaterali convergenti come a centro verso la convalidazione della loro tesi; giacchè i defunti comunicanti non si esprimono soltanto nella lingua o nel dialetto natio, ma lo fanno col timbro vocale che li caratterizzava in vita, adoperando i medesimi intercalari famigliari, dimostrando le medesime idiosincrasie di pensiero, il medesimo carattere, le medesime tendenze e la medesima intellettualità; mentre non vi è particolare, per quanto insignificante, della loro esistenza terrena, o dell’esistenza dei famigliari ed amici, ch’essi non ricordino, e ben sovente riferiscono particolari ignorati da tutti i presenti, particolari che si riscontrano costantemente veridici. Inoltre, gli spiritisti hanno da far valere un altro dato di fatto il quale basta da solo a demolire completamente e definitivamente l’ipotesi sconclusionata in discorso; ed è che si conoscono casi di Xenoglossia in cui lo spirito comunicante conversò o scrisse in una lingua ignorata da tutti i presenti. Comunque, ripeto che nelle circostanze in esame, l’onus probandi gravita sulle spalle dei metapsichicisti, non già su quelle degli spiritisti, i quali propugnano un’ipotesi in perfetta armonia col complesso dei fatti.

   Riportiamo, ora, in dettaglio lo straordinario caso passato alla storia della fenomenologia paranormale come “ LA POESIA DI CONFUCIO “.

   Si tratta di un episodio in cui si riuniscono: voce diretta, xenoglossia e identificazione spiritica e che per la sua straordinarietà e per l’impossibilità oggettiva di negarne l’autenticità ha lasciato perplessi tutti i ricercatori. Lo rilevo dall’ottimo volume di A. Ferraro “ Identificazione Spiritica – Conferme e utopie “.

Più che quale caso di identificazione, quello di cui stiamo per dire è riguardato come fenomeno di xenoglossia. Il motivo per cui si dà maggior rilievo a questo aspetto della manifestazione, risiede nel fatto che la lingua utilizzata fu il cinese di 2500 anni prima, mentre lo spirito presumibilmente identificato sarebbe stato nientemeno che quello di Confucio. Al fenomeno è dedicato un libretto di circa 50 pagine, scritto da Neville Whymant, sinologo e orientalista inglese. L’attendibilità di questo autore pensiamo sia garantita dal suo “ curriculum “. Dopo essere stato professore di letteratura e filosofia orientale alle università di Tokio e di Pekino, svolse attività come giornalista, in campo editoriale e in diplomazia. La sua cultura e la sua versatilità, ne hanno fatto un personaggio di prim’ordine e quando si dedicò allo studio della paranormalità nell’estremo oriente la sua opera destò particolare interesse; tuttavia, fu soltanto con la pubblicazione del piccolo libro dedicato al caso argomento di questo capitolo, che il consenso del grosso pubblico alla sua attività raggiunse un livello addirittura clamoroso.

   Un aspetto indubbiamente positivo concernente l’episodio di identificazione così particolareggiatamente riferito dal Whymant, è che, come sempre avviene in relazione ai casi più clamorosi, nessun censore più o meno accanito, più o meno in buona fede, abbia mai posto in dubbio la relazione dello studioso britannico.

   L’orientalista inglese si dichiara “ non spiritista “ o meglio, secondo l’ambigua espressione nota a tutti i cultori del paranormale, “ not a spiritualist “, specificando tra l’altro di non essere in nessun modo in relazione con associazioni implicate nella “ psichic research “ ovvero interessate all’indagine sul paranormale.

   Whymant era giunto a New York con la moglie, verso la fine di marzo del 1926, provenendo dall’Inghilterra, nell’intendimento di svolgere ricerche in campo antropologico, poiché aveva in corso di preparazione alcuni saggi su tale argomento.

   A quel tempo, anche il cognato, fratello della moglie, era giunto nella metropoli, dove rivestiva un importante incarico nello Stato di New York. Poche sere dopo l’arrivo, tutti e tre furono invitati in casa del giudice Cannon, in Park Avenue, dove la moglie dell’ospite aveva abbondato in domande sui costumi religiosi e la vita nel lontano oriente, dimostrando per l’argomento un rilevante interesse, pur non avendo mai viaggiato da quelle parti. Tuttavia, non era emerso nel corso delle conversazioni che la signora Cannon si interessasse di spiritismo e, tanto meno, il marito. Per quanto concerne i coniugi Whymant, il consorte afferma d’aver condotto esperimenti in tale campo negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale, ma d’aver in seguito rinunciato, avendovi solo perso tempo ed energia. Fra l’altro, i due coniugi s’erano reciprocamente accordati di non interessarsi più di questioni del genere, senza preventiva analisi e mutua consultazione. S’aggiunga poi che la guerra e altri interessi avevano definitivamente bandito dalle loro menti ogni pensiero attinente a un tale argomento.

   Dopo breve tempo i Cannon partirono, trascorsero l’estate in Europa e non si rifecero vivi se non il 15 ottobre successivo. A proposito, Whymant sottolinea la sorpresa con cui lui e la moglie appresero la motivazione di un nuovo invito per quella sera stessa, il cui scopo era di incontrarsi con alcune persone interessate alla “ ricerca psichica “, allora appunto corrispondente al nostro spiritismo. La signora Cannon, che formulò l’invito telefonicamente, aggiunse come occorresse un interprete esperto in lingue orientali. Lo studioso inglese, rsosi ormai conto dell’essenza cosmopolita di molti ambienti della metropoli, accettò l’invito, senza minimamente sospettare che in casa del giudice era prevista per quella sera una vera e propria seduta spiritica e che, diciamolo subito, la sua opera era richiesta proprio per tradurre le parole di uno “ spirito “ indubbiamente eccezionale: quello di Confucio. Soltanto allorchè Whymant e signora s’accorsero dai preparativi che cosa l’aspettasse, Mrs. Cannon confessò che l’evasività della sua richiesta era dovuta al fatto d’aver temuto che a una dichiarazione specifica, la risposta sarebbe stata negativa. Il medium utilizzato era George Valiantine e il tipo dell’estrinsecazione quello della voce diretta.

   La modalità con cui la seduta si svolse fu quella classica; per primo si sarebbe infatti manifestato un certo dottor Barnett, lo spirito guida del cerchio, preposto anche alla chiusura di ogni riunione. Successivamente si presentarono altre entità, ma questo non ci interessa. Ci interessa invece la manifestazione di Cristo D’Angelo e, in merito, ecco le parole di Whymant:” Improvvisamente risuonò una voce stentorea simile a quella di un cantante italiano. A pieno petto fu urlato  “ Cristo D’Angelo “. Inizialmente la voce parlava in chiaro e puro italiano, poi cadde in un dialetto siciliano in merito al quale non comprendevo nulla. Prima di lasciare il cerchio, tuttavia, Cristo D’Angelo trionfò nel canto di una ballata siciliana “.

   Su altri messaggi di tipo tradizionale, in quanto comuni alla casistica spiritica classica, non vale soffermarsi, mentre è del massimo rilievo il fatto che nell’ambiente si sia diffuso il suono di un caratteristico vecchio flauto; si trattava delle note di uno strumento che, dichiara Whymant, “ Coloro che hanno girovagato di sera lungo strade cinesi non possono non ricordare. In pochi secondi ero ritornato a rivivere visioni ed esperienze dell’antico Celeste Impero “.

   Successivamente, parve al sinologo di udire il nome cinese di “ K’ung – fu – tzu “, secondo il quale Confucio, il grande Maestro orientale, era stato canonizzato. Whymant, pur avendo riconosciuto in quella parola un suono espresso in un antico idioma cinese, pregò in cinese che il nome venisse ripetuto. Senza esitazione, la voce misteriosa ripetè con chiarezza e senza ombra di dubbio:” K’ung – fu – tzu “.

   A questo punto, conviene riportare la traduzione fedele del testo redatto dallo studioso britannico. “ Da molto tempo consideravo il cinese come mio campo di ricerche, e sarebbe stato bravo chiunque, medium o altri, fosse riuscito ad imbrogliarmi in questo settore. Se la tremula voce era davvero quella dell’antico Maestro che aveva curato personalmente l’edizione dei classici cinesi, avevo molte domande da fargli. Come ho detto, era una voce tremula. Mi fu difficile intendere quello che venne detto in seguito, e più volte dovetti chiedere una ripetizione. Improvvisamente mi resi conto di ascoltare un cinese di una delicatezza e di una purezza oggi non più diffuse in alcuna parte della Cina. Via via che la voce proseguiva, capivo che lo stile usato era identico a quello dei classici cinesi editi da Confucio 2500 anni fa. Solo fra gli studiosi di cinese arcaico si potrebbero oggi udire quell’accento e quello stile, e solo qualora ripetessero qualche brano degli antichi libri. In altre parole, il cinese che stavamo ascoltando era una lingua morta come il sanscrito o il latino, morta da molto tempo.

   Ogni cinese che raggiunga una certa eminenza nella vita pubblica o privata ha parecchi nomi che gli vengono attribuiti in periodi diversi. Confucio non faceva eccezione, e io chiesi particolari di questi nomi della sua vitas, delle sue preoccupazioni su questa terra, ponendo alcuni quesiti sui quali tutti gli esperti di cinese hanno dovuto affaticarsi nei loro studi del canone confuciano. A tutte le mie domande fu data immediata risposta, senza alcuna pausa o incertezza: in realtà le risposte venivano così rapide che più volte dovetti chiedere alla voce di ripeterle, non riuscendo a seguirla perfettamente.

   D’improvviso pensai ad una prova decisiva. Nello “ Shih King “ vi sono parecchi canti che hanno messo a dura prova i commentatori fin da quando Confucio stesso pubblicò la sua opera, lasciandola alla posterità come antologia esemplare della primitiva poesia cinese. Gli studiosi occidentali hanno tentato invano di penetrarne il significato, e i cinesi versati nelle tadizioni e nella letteratura dell’antico impero hanno da molto tempo rinunciato a capirle… Queste poesie “ difficili “ non fanno mai parte del normale corredo di nozioni di uno studioso cinese: in genere vengono lasciate da parte e si leggono solo quelle di più facile eccezione.

   Io stesso non avevo mai letto alcuno di questi canti, ma conoscevo i primi versi di qualcuno: li avevo incontrati tante volte nello sfogliare il volume per leggere gli altri. In quel momento pensai che, se avessi ricordato il primo verso di una di queste poesie, mi si sarebbe presentata l’opportunità di mettere in imbarazzo il comunicante che asseriva di essere Confucio. Chiesi dunque al Maestro nel fiorito linguaggio del cerimoniale cinese, se poteva spiegarmi il significato di queste oscure odi. Senza fare una scelta consapevole, citai “ Ts’ai ts’ai Chüan êrh “, che è il verso iniziale della terza ode del primo volume della poesia classica. Non potevo assolutamente continuare nella citazione, perché non conoscevo alcuno dei successivi quindici versi. Ma non ce ne fu alcun bisogno: la voce iniziò subito la poesia e la recitò fino alla fine… Avevo carta e matita e, per quanto mi fu possibile nell’oscurità, presi nota di quel che la voce diceva e dell’intonazione usata. Dovetti comunque pregare la voce di ripetere l’intera poesia, così da completare i miei appunti.

   Non ci sarà da meravigliarsi se la mia mente era in subbuglio. Nel declamare l’ode, la voce aveva dato un nuovo ordine ai versi sicchè l’insieme si presentava come una poesia normale… “ Letta così – disse la voce – il suo significato è forse più chiaro? “. Pieno di meraviglia com’ero, non intendevo lasciare le cose a quel punto. Volevo fare un’altra prova. Un noto sinologo inglese, qualche tempo prima, aveva offerto la soluzione di un passo difficile dei “ Lun Yü , che si dice siano stati scritti sotto la personale supervisione e autorità del Maestro stesso… Mi rivolsi dunque alla voce, chiedendo:” Posso fare una domanda su un particolare degli scritti del Maestro? Nel Lun Yü Hsia Pien c’è un passo scritto male. Non dovrebbe essere letto così?...”. Ma, prima ancora che potessi pronunciarla, la voce iniziò la frase e la recitò fino alla fine. “ Stavi per farmi una domanda sui due caratteri che chiudono gli ultimi due periodi: hai ragione, i copisti hanno sbagliato. Il carattere che è scritto “ sê “ doveva essere “ i “, e quello che è scritto “ yen “ è un errore per “ fou “. Ancora una volta non seppi che cosa ribattere. In seguito non vi fu alcunché di interessante. La voce sembrava stanca…”.

   Ricordiamo che questi straordinari fenomeni erano prodotti con la medianità di George Valiantine che Whymant definisce come “ tipico esempio del semplice abitante della campagna americana, dal linguaggio non certo raffinato, privo di fantasia e di modesti interessi…” In sostanza un sempliciotto. Ebbene, quel sempliciotto era responsabile di fenomeni di medianità a voce diretta in lingue diverse e dialetti, fra cui: il cinese arcaico, l’indiano, il persiano, il basco, il sanscrito, l’arabo, il tedesco, il greco, lo yiddish e anche l’italiano. Anzi, a proposito di italiano, è interessante il fatto che l’entità del siciliano Cristo D’Angelo, si “ trasferì “ poi in Europa e, tramite la medianità del marchese Carlo Centurione Scotto, animò ancora in voce diretta le sedute storiche del Castello di Millesimo, in provincia di Savona, e del palazzo di via Caffaro a Genova.